venerdì 26 marzo 2010

Visti truffati


Un business paragonabile forse solo alla pirateria. Una truffa colossale, che coinvolgerebbe, in particolar modo, l'ambasciata italiana di Nairobi. È quanto emerge dall'ultimo rapporto del Gruppo di Monitoraggio delle Nazioni Unite, presentato martedì al Consiglio di Sicurezza dell'Onu.L'anarchia su cui si basa la fragile amministrazione in Somalia sembra aver "contagiato" anche tutte le istituzioni che con lei hanno svariate relazioni. Dopo le malversazioni negli aiuti destinati alla popolazione somala dal Programma alimentare mondiale, ora tocca al traffico di documenti.Tra i 12 e i 13 mila dollari per un uomo, 15 mila invece per una donna: questo il prezzo di un visto per l'Italia. L'indagine dei funzionari Onu ha rivelato i dettagli di una frode che coinvolgerebbe gli esponenti di più alto livello del governo di transizione somalo e almeno una funzionaria dell'ambasciata italiana, che tuttavia non è stata nominata.

Il canale politico

Il sistema approfittava dei documenti di viaggio rilasciati a ministri, deputati e alle loro delegazioni. Le rappresentanze occidentali in Kenya firmano infatti ai funzionari somali, per "cortesia" diplomatica, i visti necessari ad adempiere alle loro funzioni. Venivano così messe in piedi delegazioni diplomatiche fasulle, con tanto di familiari al seguito, che poi sparivano nel nulla una volta raggiunta la destinazione, nello specifico: l'Italia.La somma ricavata, sempre secondo l'Onu, era versata su un conto di garanzia tramite una società di money transfer, fino a quando i "clienti" non arrivavano in Italia. Il denaro veniva, poi, equamente spartito tra tutti i protagonisti dell'affare. Nel rapporto viene più volte indicata una donna dei servizi consolari presso l'ambasciata italiana a Nairobi, come il punto di riferimento per tutte le operazioni.Una volta arrivati in Italia, i somali contavano sul supporto di una rete secondaria che avrebbe potuto fornire loro documenti falsi con un'addizionale di 3.000 dollari.
Interrogato sulla questione dall'organismo, l'ambasciatore italiano Stefano Dejak ha elencato le misure messe in atto per contrastare il fenomeno. Nel febbraio 2009 Dejak ha inviato una lettera al primo ministro somalo, mentre in maggio ha chiesto un incontro dell'organismo dell'Unione Europea che si occupa di immigrazione. «A entrambe le azioni non ci sono state conseguenze», spiegano i funzionari Onu. Dejak ha anche comunicato al governo somalo che i visti richiesti dai parlamentari erano in continua crescita tanto da costringerlo a rifiutarne 50.

Beneficiati bucanieri e terroristi

«Tra coloro che possono permettersi di pagare una cifra simile, ci sono individui che traggono profitto dalla pirateria o leader di gruppi armati», questo il punto più inquietante dell'indagine, che riporta casi in cui membri delle milizie islamiste di Hizb Al Islam e Al Shabaab (quest'ultima dichiaratasi vicina alla rete di Al Qaeda) hanno utilizzato la stessa via di accesso all'Europa.
Tra i principali "broker" di visti figura un deputato somalo di nome Abdiaziz Abdullahi Mohamed, detto "Abdi-hukun", ex membro del parlamento dell'Unione Africana (Ua). Nonostante non ricopra più questa carica da 5 anni, è in possesso di un passaporto Ua e di un documento di viaggio svedese che gli permette di viaggiare e reclutare, insieme ad un complice legato ad Al Shabaab, giovani della diaspora da mandare al massacro in Somalia.
Nell'aprile 2009, Abdiaziz ha richiesto all'ambasciata italiana a Nairobi, i visti per due uomini, membri della sua famiglia. I due avrebbero raggiunto Milano e, successivamente, lasciato l'Italia con documenti falsi per una destinazione ignota. In seguito, le indagini del Gruppo di Monitoraggio avrebbero svelato il legame tra i due e l'organizzazione islamista.
Ad approfittare dei "viaggi facili" ci sarebbero anche ricchi pirati. I funzionari dell'Onu ne avrebbero individuati tre: uno avrebbe ottenuto l'asilo politico in Svezia, il secondo avrebbe raggiunto l'Olanda passando dall'Italia, l'ultimo, invece, avrebbe preferito il Regno Unito. Tutti e tre sarebbero poi tornati nella regione somala del Puntland per riprendere la propria "attività".
E questa sembra essere solo la punta dell'iceberg, dato che l'indagine ha rivelato prassi simili a quelle che riguardano l'Italia, anche per Turchia, Russia, Sudafrica e Ucraina.

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