sabato 23 ottobre 2010

La nobiltà della sconfitta




L'esercizio che abbiamo imparato nei primi giorni di scuola elementare era il disegno. Non ricordo esattamente come disegnavo, ma di una cosa ero certo. Se sbagliavo il disegno prendevo la gomma, cancellavo l'errore e riprendevo a disegnare.

Poi, il disegno è diventato solo un modo per raccontare con le immagini quello che con le parole dovevamo scrivere. Di solito si trattava di poesie o filastrocche. E se si sbagliava con le parole? Qualche linea tipo scarabocchio sulla lettera sbagliata e poi si continuava a scrivere.

Man mano che passavano gli anni mi rendevo sempre più conto che sbagliare poteva capitare, ma che meno errori avessi fatto, migliore sarebbe stato il voto da portar a casa.
Chi non ricorda i temi di italiano, scritti prima in brutta copia e poi riscritti in bella, sul foglio da consegnare alla professoressa o al professore?

Ci hanno insegnato che diventare grandi è sinonimo di esperienza e se questa significa commettere meno errori possibili allora si è tanto più grandi.
Non è una legge matematica, ma chi più sbaglia, più impara la lezione e meno volte ricadrà nell'errore già commesso.

Talvolta da grandi crediamo che anche ciò che sia sbagliato, possa - con un minimo di autoconvincimento - ridiventare giusto. Il paragone potrebbe essere simile: debelliamo l'idea di noi stessi come vinti e ci ergiamo a vincitori.
Quella gomma che utilizzavamo per cancellare il contorno un po' goffo di un viso, l'abbiamo rimessa nell'astuccio del nostro ricrederci. Siamo grandi e non abbiamo bisogno di riscrivere, ma di continuare a scrivere.

In particolare noi italiani possediamo l'arte del credere in qualcosa di giusto sapendo che è del tutto sbagliato. L'arte del riprendere dagli armadi pieni di polvere, personaggi macchiati di sangue e dire che è solo una macchia di sugo. L'arte del trasformare il vecchio in nuovo e il nuovo in obsoleto.
Se volgiamo lo sguardo all'Italia non c'è spazio pubblico o privato che non veda visi già visti una ventina di anni fa'. Ma che dico! Anche trent'anni fa'!
Sarebbe bello vedere che questi visi siano di una purezza e di un candore da far invidia anche al più giovane e arrembante Stato del mondo. Peccato che di purezza e di candore non ne vediamo nemmeno uno strascico da più di trent'anni. Vediamo giornalisti che con il solo cambio del marchio di fabbrica ridiventano "ottimi giornalisti" dopo che erano caduti nell'oblio più scuro sotto la tv di regime del nano.
Vediamo politici che avanzavano dichiarazioni di stima e di riconoscenza verso il più grande dittatore sanguinario italiano e che da un mattino all'altro, solo per aver avanzato battaglia dura contro il nano sono innalzati al più alto gradino del governo di questo Paese.
Imprenditori che per essersi fregiati dei nomi di fabbrica più maestosi al mondo, sono i possibili futuri candidati alle prossime elezioni politiche, senza vedere che il conflitto di interessi in capo a questi, rimane il nodo più grande di questo Paese, più grande anche delle imprese che gestiscono.

Non è il trionfo del fallimento. Per il bene di questo Paese bisogna dichiarare che trent'anni di storia sono da riscrivere e che continuare a scrivere aumenta l'agonia di chi legge il racconto, impoverisce il racconto stesso di dettagli e colpi di scena che possono far vincere allo scrittore il premio di storia più originale e riuscita.

Negli Stati Uniti il numero delle donne in finanza, economia e politica, è salito dallo scoppio della crisi del credito. Stanno ripulendo il caos creato dai colleghi maschi durante gli ultimi vent'anni.
Ammettere di aver sbagliato costruisce quello che alla fine saremo. Una società senza cambiamenti vive di favole, senza potersi immaginare realmente.


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