venerdì 12 novembre 2010

From globalisation to GlobalASIAtion. Quale spazio per l'Europa?

Padiglione cinese all'Expo di Shangai


Un concetto troppo spesso sopravvalutato in Europa è stato quasi sempre quello di credere che una continuità dell'economia mondiale dovesse passare per le sue mani, forse perchè l'unico continente in grado di conciliare nuovi effetti democratici con l'estensione del mercato interno a nuovi Paesi.
La strategia Europa 2020 che cancella definitivamente l'esperienza fallimentare della strategia di Lisbona, sembra aver imparato la lezione anche grazie alla recessione delle economie nazionali nel periodo post crisi.
Diventa infatti un'impresa leggere nella presentazione di tale strategia la parola "crescita" che lascia spazio a termini come

"economia più intelligente, più verde, che [...] faccia leva sull’innovazione, su un uso migliore delle risorse e sulla conoscenza quale principale fattore di crescita".


Il fallimento partito da Lisbona dieci anni fa, possiamo definirlo un "fallimento ottimistico" poichè erano note a tutti le disparità economico-finanziarie tra i diversi Stati membri, e che traguardi di alto profilo non potevano portare ad effetti tali da poter competere con le attuali potenze.
I risultati attuali sono che i paesi con enorme disavanzo sono costretti a dover rientrare entro certi parametri e i paesi che dovrebbero attuare riforme economiche di ripresa (Germania in prima fila) si trovano comunque a tagliare servizi essenziali allo stesso modo dei primi. Uno sfacelo insomma.

Ad oriente, precisamente a Singapore, Kishore Mahbubani preside della Lee Kuan Yew School of Public Policy, in suo articolo sugli errori dell'Europa ha analizzato le scelte strategiche messe in campo dall'UE ed il risultato di tale analisi è sintetizzabile in 3 punti:

1) aver allontanato la sfida islamica che poteva e può essere una buona prospettiva di rilancio non solo economico ma anche sociale, data l'esplosione demografica che interessa tutt'oggi l'Unione;
2) non aver sfruttato una partnership asiatica in tempi non sospetti, quando l'Asia in occasione della riunione Europa-Asia (ASEM), offriva i propri mercati per l'importazione dei prodotti europei più avanzati tecnologicamente;
3) mantere ostinatamente rapporti transatlantici, non rendendosi conto che gli stessi Stati Uniti hanno spostato il loro baricentro produttivo in Asia.

L'immagine di un declino europeo sul piano internazionale è sancita dall'adesione dei paesi del G-20 (riuniti in questi giorni a Seoul) al piano di riforma sulla governance del Fondo Monetario Internazionale. Per capire la portata di questo evento bisogna sfogliare gli archivi della storia, perchè in 65 anni di vita dell'Istituzione economica più influente per tutti gli Stati del mondo, non si era mai cambiato il sistema del diritto di voto e di governance interna.
Secondo la riforma infatti, l'organizzazione vede aumentare le quote al diritto di voto per i quattro paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) a discapito delle "economie europee avanzate" (Germania, Francia, Regno Unito e Italia). La Cina conquista la terza posizione dopo Usa e Giappone sorpassando Gran Bretagna, Francia e Germania.



Inoltre l'Europa dovrà cedere due posti agli attuali nove, all'interno del board (organo esecutivo dell'FMI) costituito da 24 Paesi.
Il Fondo sarà ancora per poco la rappresentazione dell'età coloniale e come ha sottolineato il direttore generale dell'Fmi Dominique Strauss-Kahn, "è un quadro che si adegua alla nuova realtà dell'economia mondiale".

Ma questa deriva europea non è che l'avvio di una fase incerta dell'economia mondiale dovuta alle posizioni protezionistiche di Cina e Stati Uniti per evitare la svalutazione delle rispettive valute.

Infatti al centro della discussione al G-20 ruota lo scottante problema della frattura tra i paesi ricchi esportatori e quelli consumatori che sono costretti a sorbirsi l'intero debito, al fine di tenere sotto controllo gli squilibri delle partite correnti. In sostanza si tratta di spingere i paesi emergenti (Cina in testa) ad incentivare i consumi all'interno dei propri paesi per evitare che tutto ciò che viene prodotto venga in buona parte esportato, lasciando agli stati importatori l'onere di consumare, non avendo purtroppo liquidità sufficiente per acquistare e caricarsi quindi un investimento senza ritorno, ovvero debito.

La sfida europea rimane pertanto quella di allargare il suo sguardo di macroregione occupata di tenere a bada le strilla dei propri Stati membri e di affrontare un tema sociale che è quelloi dell'integrazione dei popolaffacciati sul mediterraneo, di aprire i propri mercati il più possibile. L'importanza di un mercato interno sarà valida solo quando potrà accettare e accertare la sua competitività con i restanti mercati. Competere non è sempre una perdita, ma una perdita al rialzo, che stimola anche quando c'è poca innovazione.

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